Guittone d’ Arezzo
Con’ più m’allungo, più m’è
prossimana
la fazzon dolce de la donna
mia,
che m’aucide sovente e mi
risana
em’àve miso in tal
forsennaria,
che, ’n parte ch’eo dimor’ in
terra strana,
me par visibil ch’eo con ella
sia,
eor credo tale speranza vana
ed altra mi ritorno en la
follia.
Così como guidò i magi la
stella,
guida me sua fazzon gendome
avante,
che visibel mi par e
incarnat’ella.
Però vivo gioioso e
benistante,
ché certo senza ciò crudele e
fella
morte m’auciderea
immantenante.
Cuanto más me alejo, más se
me acerca
el dulce rostro de mi amada,
que me mata a menudo y me
sana,
y me sumerge en tal delirio
que aunque me encuentro en
tierra extraña,
me parece estar siguiendo sus
signos;
y tan pronto me parece vana
esta esperanza
como vuelvo a vivir esta
locura.
Así como guió a los magos la
estrella,
me guía su semblante, sus
pasos por delante,
como si estuviera presente de
carne y hueso.
Por esta razón vivo feliz y
dichoso,
pues de otra manera me
mataría
al instante una muerte cruel y
pérfida.
Tuttor ch’eo dirò gioi,
gioiva cosa,
intenderete che di voi favello,
che gioia sete di beltà gioiosa
e gioia di piacer gioioso e bello:
che gioia sete di beltà gioiosa
e gioia di piacer gioioso e bello:
e gioia in cui gioioso avenir
posa,
gioi d’adornezze e gioi di cor asnello;
gioia in cui viso è gioi tant’amorosa
ched è gioiosa gioi mirare in ello
gioi d’adornezze e gioi di cor asnello;
gioia in cui viso è gioi tant’amorosa
ched è gioiosa gioi mirare in ello
Gioi di volere e gioi di
pensamento
e gioi di dire e gioi di far gioioso
e gioi d’onni gioioso movimento
e gioi di dire e gioi di far gioioso
e gioi d’onni gioioso movimento
Per ch’eo, gioiosa Gioi, sì
disioso
di voi mi trovo, che mai gioi non sento
se ’n vostra gioi il meo cor non riposo
di voi mi trovo, che mai gioi non sento
se ’n vostra gioi il meo cor non riposo
Parafrasi
Ogni volta che dirò «gioia», o creatura gioiosa, voi capirete che parlo di voi, che siete una gioia dalla bellezza gioiosa e una gioia che dà un piacere bello e gioioso:
e (siete) una gioia in cui risiede una bellezza (avenir) gioiosa, gioia di eleganza e gioia di corpo snello; una gioia nel cui volto c'è una tale gioia amorosa che guardare in esso è una gioia che dà felicità.
(Siete) una gioia della volontà e del pensiero, gioia di parlare e di agire in modo gioioso, e (siete) una gioia in ogni vostro gioioso movimento.
E infatti io, Gioia che dà felicità, sono così desideroso di voi che non sento mai alcun piacere se il mio cuore non si appaga nella vostra gioia.
Ogni volta che dirò «gioia», o creatura gioiosa, voi capirete che parlo di voi, che siete una gioia dalla bellezza gioiosa e una gioia che dà un piacere bello e gioioso:
e (siete) una gioia in cui risiede una bellezza (avenir) gioiosa, gioia di eleganza e gioia di corpo snello; una gioia nel cui volto c'è una tale gioia amorosa che guardare in esso è una gioia che dà felicità.
(Siete) una gioia della volontà e del pensiero, gioia di parlare e di agire in modo gioioso, e (siete) una gioia in ogni vostro gioioso movimento.
E infatti io, Gioia che dà felicità, sono così desideroso di voi che non sento mai alcun piacere se il mio cuore non si appaga nella vostra gioia.
Il componimento si basa sulla
ripetizione della parola «gioi(a)» e dei suoi derivati, come gli
aggettivi «gioiva», «gioioso», per
25 volte in tutto. Il termine è il provenzale joi, parola che racchiude in sé un significato più
ampio di quello attuale e indica la «felicità» dell'animo,
spesso provocata dall'amore; il sonetto è affine al genere trobadorico del plazer, che consisteva nell'elenco di una serie di cose piacevoli.
Al v. 6 cor («corpo») deriva dall'antico francese cors, mentre avenir («avvenenza») è provenzalismo. Al v. 8 ched è congiunzione eufonica.Movimento (v. 11) può significare anche «momento».
Al v. 6 cor («corpo») deriva dall'antico francese cors, mentre avenir («avvenenza») è provenzalismo. Al v. 8 ched è congiunzione eufonica.Movimento (v. 11) può significare anche «momento».
La donna è lodata secondo i canoni della poesia provenzale e siciliana, quindi riguardo alla sua bellezza fisica (beltà, avenir, adornezze, cor asnello); il suo viso dà felicità al solo guardarlo ed essa si esprime attraverso i desideri, i pensieri, le parole e i gesti. Il poeta trova appagamento solo nel cuore dell'amata, anche in questo caso secondo i canoni della poesia trobadorica
Monica Cerroni
Università
di Pavia. Dipartimento di scienza della letteratura e dell'arte medievale e
moderna
GUITTONE d'Arezzo. - Nacque in un anno imprecisabile tra
il 1230 e il 1240 a
Santa Firmina, un piccolo villaggio sulle propaggini del monte Lignano, poco
distante da Arezzo, presso il cui Comune il padre, Viva di Michele, svolgeva
l'ufficio di camerlengo. La famiglia, economicamente agiata, aveva origini più
probabilmente borghesi che nobiliari; della madre non sappiamo nulla, se non
che G. fu forse il suo unico figlio.
Della prima
formazione di G. nulla conosciamo di certo. In una lettera, databile prima del
1286 e indirizzata a Marzucco Iscornigiano (degli Scornigiani),
"assessore" (ossia giudice) del podestà di Arezzo nel 1249, G . ricorda d'aver
"picciul garzone" aiutato il padre nel suo lavoro (Lettere, n. XVIII, ed. Margueron, p.
200). L'espressione non sembra riferirsi ai tempi, ma ai modi di tale servizio:
designerebbe, infatti, l'ufficio di misero aiutante svolto da G., piuttosto che
la giovane età. Dalla stessa lettera e dalla menzione dell'assessorato di
Iscornigiano, inoltre, taluni ritengono necessario spingere la data di nascita
di G. fino al 1240.
Durante tutta la
giovinezza G. viaggiò spesso: sicuramente fu a Pistoia, presso la corte dei
conti Guidi di Romena, dove scambiò alcuni versi con il giullare Guidaloste, a
proposito del quale, inoltre, ebbe modo di indirizzare un'epistola al conte
Guido Guidi (Guido Pace). Nessun documento testimonia la sua frequenza di un
corso di studi universitari; altrettanto ignoto è il nome di un eventuale
maestro, ruolo che il padre non sembra abbia potuto assolvere; G. si accostò
dunque probabilmente come autodidatta ai classici e alle letterature romanze.
Egli, del resto,
poteva trovare in Arezzo un centro di assoluta preminenza culturale nella
Toscana del tempo: la città, infatti, disponeva di uno Studium
generale, i cui ordinamenti, tra i più antichi d'Europa, risalivano
al 16 febbr. 1255, ma è verosimile che già all'epoca Arezzo godesse di un
prestigio culturale adeguato. Punto di riferimento ineludibile per chi volesse
intraprendere gli studi umanistici era il maestro di retorica Bonfiglio, la cui
attività ad Arezzo è attestata con sicurezza tra il 1258 e il 1259; presso di
lui, come altri della sua generazione, G. potrebbe aver appreso i fondamenti
tecnici della poesia, saldando quel vincolo tra sperimentazione letteraria e
perfezionamento retorico e metrico che sarebbe approdato a una personale
ricerca stilistica.
A partire dagli anni
Quaranta fino alla metà degli anni Sessanta G. si dedicò alla stesura di
sonetti erotici, nei quali dominano stilemi e lessico dall'evidente ascendenza
provenzale, elaborati in prevalenza secondo la tecnica del trobar
clus, che egli trapiantò in Toscana non senza il tramite delle
sperimentazioni attive alla corte siciliana di Federico II, imponendosi ben
presto come l'erede toscano delle due tradizioni: l'assolutezza d'Amore, la
devozione incondizionata alla donna, la fedeltà al sentimento sono i motivi
dell'amor cortese ricorrenti nei suoi versi, su cui permane la tonalità scura
della sofferenza d'amore.
Gli 86 sonetti del
codice Laurenziano, pubblicati da L. Leonardi,
costituiscono il nucleo della poetica cortese assimilata da G., tanto da
delinearsi come i momenti lirici di un vero e proprio canzoniere, che egli,
forse sull'esempio delle razos e
delle vidas provenzali, volle organizzare in forma
di racconto. Nel canzoniere si distinguono momenti narrativi diversi, che sono
altrettante occasioni per rinnovare la tradizione provenzale. Il sentimento
d'amore procede tra speranza e disperazione, soggetto alle varie reazioni della
donna, che riceve il senhal "gioia". L'imprevisto esito
felice della relazione dà luogo al distacco contemplativo dell'amante dal suo
oggetto, producendo un canto di lontananza; chiude il canzoniere la tenzone con
la donna che, divenuta villana, stabilisce, consumato lo scambio di qualche
sonetto, di non più corrispondere.
Nell'ideare questo
itinerario G. intendeva mostrarne piuttosto l'esemplarità che la veridicità, ma
un tale progetto, di matrice trobadorica, ingenerava una diffrazione del punto
di vista, attraverso cui rielaborare, innovandolo profondamente, il rituale
cortese, già disseminato, del resto, di esperienze paradigmatiche e refrattario
all'autobiografismo. Pur nell'assenza di riferimenti autobiografici, l'io
lirico assume con G. una più riconoscibile individualità e si cala in una
realtà sociale e politica già ampiamente trasformata dall'avvento della borghesia:
nella rappresentazione scompaiono, così, i tratti aristocratici che erano
propri del modello.
Le canzoni d'amore
per così dire "extravaganti" sembrano soggiacere in modo più
consistente al modello cortese della fin'amor, senza che questo implichi,
tuttavia, la rinuncia al carattere intrinsecamente sperimentale dell'esperienza
poetica guittoniana. I momenti centrali dell'itinerario spirituale più tipico
del trovatore, al contrario, sono ripresi all'interno di una consapevole
operazione di riuso, elaborata in chiave retorica e comunicativa.
L'architettura prosegue senza soste lungo queste direttrici, fino a
strutturarsi in un decalogo dell'amor cortese, destinato a chi aspiri a
divenire "fino" amante e a ripararsi dalla follia d'amore: l'aspetto
didattico diviene così comunicazione di un'essenziale filosofia pratica.
Quanto agli aspetti formali, è stato attribuito a G. il
merito d'avere stabilito anche in Italia l'uso provenzale della tornata, o
commiato. Tra i generi provenzali più rivisitati da G. spiccano l'enueg (casistica
delle "noie"), il plazer (casistica dei "piaceri"),
il devinalh (concatenazione
di affermazioni contraddittorie), il planh(compianto funebre).
L'impegno politico
cadeva in un periodo difficile per Arezzo, città dal territorio vastissimo, la
cui influenza politica era tuttavia da tempo declinante. Nel decennio 1230-40 i
magistrati aretini al governo della città avevano perduto l'appoggio imperiale,
senza riuscire a procurarsi la protezione della Chiesa. La nomina del vescovo
nel 1248 aggravò ulteriormente la situazione: il nuovo titolare della diocesi,
Guglielmino degli Ubertini, membro di una nobile famiglia ghibellina, mirava
all'alleanza con Firenze, città dalla quale i ghibellini, sostenuti da Federico
II, avevano intanto bandito gli avversari. Morto Federico, costoro furono
richiamati e, dopo un breve periodo di pace, bandirono a loro volta dalla città
le principali famiglie ghibelline. Nel 1256 Arezzo, infine, si alleò con
Firenze, ma già tre anni più tardi, nel 1259, l 'alleanza s'incrinò.
Arezzo preparava,
infatti, un attacco contro Cortona, cui G. si oppose strenuamente, prevedendone
pericolosi riflessi sull'alleanza con Firenze. Egli si proclamava risolutamente
contrario all'iniziativa militare e fautore, per contro, di un ritorno alla
pace, anzitutto entro le mura cittadine. Con il suo dissenso G. riuscì però
solo a inimicarsi i concittadini, che vedevano l'azione, al contrario, come
un'occasione di riscatto. Arezzo, dunque, attaccò nottetempo Cortona, avendone
immediatamente la meglio. La reazione di Firenze non si fece attendere:
sentendosi indirettamente minacciata, nel febbraio dello stesso 1259 assalì il
castello di Gressa, possedimento del vescovo di Arezzo.
I fatti avevano
perciò ampiamente confermato le più infauste previsioni di G.: l'offensiva
contro Cortona s'era rivelata addirittura rovinosa per Arezzo. Nella città
nulla era rimasto come prima e non vennero a mancare per G. ulteriori motivi di
delusione e risentimento verso i concittadini. La decadenza morale sia nella
vita pubblica sia in quella privata, il venir meno dell'ideale di giustizia, il
dilagare della corruzione che avevano costituito, nel progresso degli anni, le
ragioni del distacco dalla comunità cittadina furono aggravate dalle
conseguenze di quell'inutile assalto. Egli scelse dunque volontariamente la via
dell'esilio.
G. affidò a una
canzone-sirventese, Gente noiosa e villana (XV, ed. Egidi, pp. 31-35), il
resoconto delle ragioni personali di quella risoluzione, sistemate in una
minuta cronaca storico-politica. Dal congedo si ricava che suo primo rifugio fu
una località sita fuori della Toscana. Con accenti nostalgici, Arezzo è
raffigurata in preda alla guerra; vi regnano villania e ingiustizia ma
nondimeno, ristabilite ragione e pace, G. dichiara di desiderare il ritorno.
Contro la sua città non pronunciò mai parole di definitiva condanna,
conservando, al contrario, un profondo affetto per essa e per i suoi abitanti
(si veda per esempio la lettera XXVII, ed. Margueron, p. 281).
Nel 1260 culminò la
tensione tra le fazioni in lotta per il predominio sulla Toscana; anche Arezzo
venne coinvolta. I ghibellini fuorusciti da Firenze, riunitisi a Siena,
chiesero aiuto a Manfredi, il figlio di Federico II, che inviò, sotto il
comando del conte Giordano, 900 cavalieri tedeschi. Lo scontro con Firenze si
svolse il 4 sett. 1260 a
Montaperti: qui i ghibellini riportarono il loro più grande successo militare e
i maggiori centri toscani entrarono così sotto il loro controllo. Due anni più
tardi, divenne podestà di Firenze Guido Guidi (Guido Novello), cognato di
Manfredi. Tutta l'anomalia della posizione aretina emerse all'indomani della
battaglia, quando il vescovo si ritrovò tra i vincitori ghibellini in una città
che era stata alleata della sconfitta Firenze; divisa al suo interno, Arezzo si
avviò alla decadenza.
La notizia della
disfatta guelfa raggiunse G. lontano da Arezzo, ma già rientrato in Toscana:
per un periodo egli soggiornò a Pisa, dove poteva contare sull'aiuto di
numerosi conoscenti, tra i quali il già ricordato Guido Novello. La loro
amicizia era destinata a consolidarsi nel tempo: proprio sul finire del 1266 G . gli avrebbe
indirizzato una canzone con cui si offriva nella veste di consigliere e lo
incoraggiava a ripagare con la stessa moneta un torto ricevuto.
Dopo Montaperti G.
compose un altro sirventese, Ahi lasso! or è stagion de doler tanto (XIX, ed. Egidi, pp. 41 s.), in
cui deplorava come dramma irreversibile la sconfitta della potente Firenze,
baluardo del partito guelfo. La personificazione della città si reduplica in
combinazioni foniche dominate da figure etimologiche, contribuendo ad
amplificare lo stile tragico: l'"alta Fior sempre granata" (v. 5)
d'apertura diventa "sfiorata Fiore" (v. 16); in chiusa, G. pronuncia
un malinconico auspicio di rinascita, "Fiorenza, fior che sempre
rinovella" (v. 93). Di poco posteriore alla canzone è la celebre epistola
agli Infatuati miseri Fiorentini sul medesimo tema, nella quale,
peraltro, i Fiorentini non sono più tali, "ma desfiorati e
desfogliati" (XIV, ed. Margueron, p. 158).
Quanto ad Arezzo,
egli ne raffigurò la decadenza morale in una delle sue più celebri canzoni
politiche, Ahi, dolce terra aretina, composta,
secondo Pellizzari e Tartaro, prima della morte di Manfredi, tra il 1262 e il
1265, secondo Margueron tra il 1285 e il 1288. Con questi versi G. individuava
la causa della rovina nel comportamento degli stessi Aretini, che avevano
consegnato a un "non stante e strano", ossia a uno straniero, le
sorti della città (XXXIII, v. 131, ed. Egidi, p. 93). L'incertezza sulla data
di composizione è oggettiva: le amare conclusioni sull'incapacità di Arezzo di
trovare pace e alleanze sicure caratterizzarono tutto il ventennio successivo a
Montaperti, segnato dall'ambigua politica del vescovo. Questi, morto Carlo
d'Angiò nel 1285, appoggiò i ghibellini e, dopo aver riportato un'iniziale
vittoria contro i guelfi fiorentini al Toppo, condusse Arezzo al più grande
disastro politico e militare nella storia della città: nella battaglia di
Campaldino del 1289, cui prese parte anche Dante, Arezzo venne duramente
sconfitta dall'alleanza tra Firenze e Siena.
In seguito al
rivolgimento dell'assetto politico aretino dopo Montaperti maturò in G. la
scelta di aderire, intorno al 1265, all'Ordine dei cavalieri di S. Maria
gloriosa ("milites beatae Virginis Mariae", o Milizia della Vergine).
Fino in tempi recentissimi, si è imposta l'idea che G. fosse stato protagonista
di una vera e propria conversione, cui riconnettere, quanto a questioni di
poetica, la bipartizione dell'opera guittoniana in rime amorose e rime
ascetiche e morali, tramandata dal canzoniere Rediano (Firenze, Biblioteca
Laurenziana, Rediano, 9), la principale silloge
manoscritta delle sue rime pervenutaci.
Invero, l'eclissarsi
del tema erotico a vantaggio dell'impegno didattico-morale appare tratto
distintivo di un numero cospicuo di rime, molte delle quali presumibilmente
tarde, come pure dell'epistolario. Ciò, tuttavia, potrebbe non essere una
consapevole elezione tematica imposta dai rigori di un ascetismo che lo stato
di "miles beatae Virginis Mariae" non comportava necessariamente;
piuttosto, potrebbe riflettere un rinnovato, forse più incisivo, impegno sociale.
Elementi politici, morali e religiosi, del resto, convivevano nello stile di
impianto didattico che G. aveva coltivato fin dagli esordi.
L'Ordine prescelto da G., religioso e cavalleresco
insieme, ebbe carattere laicale e un'accentuata propensione politica, lontana
dal fervore mistico contemporaneo: G. non divenne clericus,
ma uno dei "crestian cavaleri" (XL, v. 32, ed. Egidi, p. 109). Allo stato
degli studi i "milites beatae Virginis Mariae" costituivano una pia
confraternita, i cui membri agivano, anche ricorrendo alle armi, in difesa
della fede cattolica.
La sua
organizzazione era analoga a quella della Milizia di Gesù Cristo, sorta, per
iniziativa di un domenicano, qualche anno avanti a Parma, con l'intento di
estirpare l'eresia dai Comuni. Era stata allestita così una crociata di tipo
nuovo, adatta a un territorio, quale l'Italia settentrionale, dove la nobiltà
terriera non esercitava grande influenza, mentre il patriziato urbano, avverso
alla parte popolare, poteva trovare in Federico II un potente alleato contro la
Chiesa; il rischio, naturalmente, preoccupava la S. Sede, già impegnata a
contrastare il dilagare dell'eresia. Anche i "milites beatae Virginis
Mariae" sorsero, dopo la scomparsa della Milizia di Gesù Cristo, con
l'intento di arginare la diffusione dell'eresia nelle città e, inoltre, di
promuovere tra i laici la spiritualità militante di francescani e domenicani,
ai quali ultimi apparvero fin da subito particolarmente legati. Prioritaria
missione cittadina, la nuova milizia si concentrava nell'opera di pacificare le
fazioni in lotta, mirando sempre a tutelare gli interessi ecclesiastici e
opponendosi alle iniziative comunali, specie se ghibelline.
I "milites
beatae Virginis Mariae" nacquero nel 1260, per iniziativa di alcuni nobili
emiliani, tra cui il bolognese Loderengo Andalò; la regola, stilata da fra
Rufino Gorgone di Piacenza, ottenne, probabilmente con alcune rettifiche che
miravano ad accentuarne il carattere di istituzione religiosa, l'approvazione
di papa Urbano IV il 23 dic. 1261. Potevano aderirvi solo i nobili che avessero
anche la dignità di cavalieri, condizione, questa, che doveva essere sempre
osservata: chi non era cavaliere doveva essere insignito del titolo da un
confratello. Di fatto, l'Ordine raccolse i membri dei nascenti patriziati
cittadini e non li trasformò in sacerdoti, ma in "milites" al servizio
dell'ortodossia.
La posizione sociale
di G. era dunque compatibile con tali requisiti; non costituiva impedimento,
inoltre, il suo stato civile: potevano entrare tra i "milites beatae
Virginis Mariae", infatti, anche i coniugati, cui era riservato il diritto
di risiedere nel proprio domicilio. Come ai conventuali - erano così denominati
i confratelli, chierici e laici, non coniugati che invece dimoravano in
convento - anche a costoro era imposto, oltre a qualche pratica ascetica, di
astenersi dal ricoprire cariche pubbliche e di preservarsi immuni da eresia e
usura. Con la loro promissio facevano voto di obbedienza e castità
coniugale ed erano tenuti a recarsi in convento mensilmente e a partecipare ai
capitoli, generali e provinciali. L'Ordine militare era suddiviso in province,
amministrate da un priore provinciale. Se si deve prestar fede all'erudito
settecentesco D.M. Federici, già nel 1267 G . aveva acquistato la dignità di
provinciale, verosimilmente per la provincia di Toscana: ciò comportava compiti
di direzione e controllo sulle articolazioni territoriali, come i conventi, le
chiese e le case, aperti sin dai primordi nelle principali città, prime fra
tutte Firenze e Pisa. Ad Arezzo, l'Ordine possedeva un monastero fuori le mura,
in una località denominata Fonte Veneziana, mentre Pisa era sede dei novizi.
Molta parte
dell'epistolario di G. testimonia una fase di vera e propria propaganda per
l'Ordine (sicuramente perseguono questo scopo le epistole XIII, che prende
spunto dalla vestizione di alcuni novizi, e XV, dedicata a un non meglio
identificato Simone). Al tempo in cui G. divenne cavaliere cristiano sono fatti
risalire tutti i componimenti che abbiano temi diversi dall'amore carnale; si
tratta di sonetti e canzoni dai quali emergono molti dei temi propri alla
Milizia: la condanna dell'eresia; il compiacimento per aver abbandonato il
"secol malvagio" (XLIV, v. 2, ed. Egidi, p. 116) e il "mondano
piacer" (sonetto 174, ibid., p. 234); la centralità della pace; l'elogio
della castità.
Ancora all'ambito
morale rinviano i componimenti in cui G. rimpiange il tempo trascorso tra i
vizi ed esorta gli amici a perseguire il bene. La celebrazione del vero amore
contro l'amore carnale, coltivato in gioventù, culmina nel Trattato
d'amore, una sequenza di 11 componimenti brevi, quasi tutti
sonetti, con i quali G. dipinge la follia d'amore, "dogliosa morte"
(sonetto 242, v. 1). Appartengono al gruppo, inoltre, una corona di sonetti
dedicata alle virtù e ai vizi e le canzoni dedicate a Gesù, a Maria e ai
fondatori degli ordini mendicanti. Valida come documento della missione del
cavaliere cristiano secondo G. è la canzone O ver virtù, vero amore (XXIX).
La condotta immorale
di molti confratelli finì col deludere le aspettative di un autentico
rinnovamento. La consuetudine con il lusso e, più in generale, la prevalenza
delle cure terrene sull'originaria missione resero i membri dell'Ordine invisi
a tutta la comunità di fedeli, come palesa l'appellativo ben noto di frati
gaudenti, diffuso sin dagli esordi.
Quanto alla fama di
ipocriti, attestata nel canto XXIII dell'Inferno di Dante, essa derivò dall'opera di
pacieri che Loderengo Andalò e il confratello Catalano di Guido di donna Ostia
furono chiamati dal papa ad assolvere, nelle vesti di rettori di Firenze. Nel
1266 i due rettori, che avevano assunto comportamenti ambigui, furono
allontanati dalla città lasciando nei Fiorentini un ricordo funesto, di persone
inaffidabili e, appunto, ipocrite. In quella circostanza G. manifestò a
Loderengo stima e devozione, dedicandogli la canzone Padre
dei padri miei e mio messere (XL,
ed. Egidi, pp. 108-110): nell'esprimere profonda solidarietà G. lo supplicava
di volergli ancora prestare opera paterna.
Se, dunque, G.
poteva contare sull'affettuosa protezione di Loderengo, la canzone O
cari frati miei (XXXII,
ibid., pp. 83-89), composta nello stesso 1266, mostra invece chiari segni di
un'improvvisa crisi. Egli rimprovera ai confratelli d'aver perduto di vista il
vero bene e di "gaudere / ov'è gran despiacere" (vv. 93-94) e tenta
di difendersi dalle accuse e dalle ingiurie che ne ha ricevuto: rivendica come
giusta la decisione di abbandonare i tre figli ancora piccoli (v. 92) e insieme
con essi tutte le dolcezze della vita mondana, per dedicarsi interamente a Dio;
scelta che i confratelli giudicavano folle. Dai toni e dai contenuti della
canzone si può ipotizzare che solo in un secondo tempo G., spinto dalle
delusioni, scegliesse una vita religiosa più radicale: quando abbandonò moglie
e figli, egli presumibilmente divenne conventuale rimanendo laico.
Testimoni della
crisi appaiono anche alcune lettere, nelle quali G. riversa l'appassionata
predicazione dei doveri di ogni buon frate: perseguire l'unico bene dimorante
in Dio, abbandonare i transitori beni mondani.
Composto per la
maggior parte in questi anni, l'epistolario di G., uno dei massimi esempi di
prosa letteraria di questo genere, offre poche altre informazioni biografiche:
i nomi dei corrispondenti e i toni con i quali G. si rivolge loro consentono a
malapena di tracciare un quadro delle relazioni intrattenute con i
contemporanei, ma poco si prestano a precisarne i tempi e le circostanze meno
occasionali. Oscuri permangono inoltre i destinatari di alcune missive: o
perché ai nomi non corrispondono profili a noi noti, o perché lo stesso G. volle
lasciarli celati dietro sigle. Non è escluso che, in questi ultimi casi, egli
volesse produrre modelli di lettere, utili a fini didattici e rigorosamente
scanditi secondo la ripartizione tradizionale:salutatio, exordium, narratio, petitio, conclusio.
Le lettere si
prestano a scopi didattici sia per quanto concerne l'impianto retorico e
metrico (ars dictandi, cursus)
sia per la scelta dei temi, per lo più di carattere morale. La prima, in
particolare, indirizzata a un certo Gianni Bentivegna, che gli chiedeva
ammaestramenti di vita, sintetizza la personale filosofia morale di G., segnata
da una forte vena religiosa. Scopo delle Scritture e di ogni scienza naturale e morale è
fuggire il male e seguire il bene, ma è necessario saperli riconoscere. La
vita, secondo G., è un interminabile perfezionamento morale, nel quale si può
progredire attenendosi ai precetti cristiani.
Le questioni attorno
alle quali insorge l'esigenza d'una lettera sono spesso indicate in modo
sommario nella salutatio, dove G. inserisce anche
qualche informazione circa i rapporti con il destinatario. Dalla sintetica
enunciazione si passa in breve all'esposizione dell'argomento: G., accantonando
ogni forma di prosa intimistica, predilige la trattazione di stampo
sillogistico, sorretta opportunamente dalleauctoritates più accreditate, classiche e cristiane
(tra cui Aristotele, Cicerone, Seneca, Agostino, Boezio). Il motivo occasionale
lascia il posto, così, a un serrato argomentare dottrinario e morale, tanto che
molte delle epistole prendono l'aspetto di sermoni, dove una lingua concreta e
realistica modella sentenze astratte dal colore metafisico (Segre). Il solido
impianto retorico è funzionale al docere e almovere:
la persuasione prevale così sulle concatenazioni logiche del discorso. Quanto
agli argomenti trattati, si distinguono lettere consolatorie, epidittiche,
deliberative, politiche. Non manca, infine, qualche missiva di circostanza che,
pur priva di intenti didattici, ricorre a citazioni colte.
La "sottiglianza" delle rime, l'essere insieme
nei contenuti ardue e gravi e nella forma ricercate fino all'oscurità, torna,
fatta qualche eccezione, anche nell'epistolario, commisto, forse senza un
progetto nitidamente delineato, di prosa e versi. Nel costruire il periodo, G.
si richiama alla prosa rimata volgare, che a sua volta discendeva dalla latina,
per far proprio un ideale di simmetria e tradurlo in una sorta di musicalità
ricercata per mezzo della tecnica retorica e timbrica insieme. Parallelismi,
antitesi e altri costrutti logici e retorici compongono un virtuosistico gioco
di forme, ritmicamente scandito in clausola.
Lo stile prosastico
guittoniano ebbe qualche imitatore: Meo Abbracciavacca, Dotto Reali e un certo
Teperto (Tiberto Galliziani); il suo modello fu, infine, non ininfluente anche
sulle scelte retoriche della generazione successiva, dove ancor vivo è il
ricorso alla prosa ritmica, pur snellita nel corredo retorico.
Sappiamo da alcuni
atti che nel 1285 G .
si trovava nei dintorni di Bologna, a Ronzano, per trascorrervi un periodo non
breve. Qui Loderengo, subito dopo l'esilio da Firenze, si era ritirato in un
convento, nei cui pressi, in zona Genestre, il 3 apr. 1285 G . acquistava una
vigna. A legare G. alla locale comunità di frati è il testamento di suor
Iulitta, moglie di frate Bonaventura da Savignano, rogato il 23 maggio 1285: G.
compare, insieme con il figlio Dano, come testimone. Sul finire di luglio
un'altra vigna nei dintorni veniva ceduta dallo stesso Bonaventura da Savignano
a Loderengo: nell'atto G. viene menzionato come acquirente precedente.
Qualche anno più
tardi il nome di G. ricompare in terra toscana. Al 7 sett. 1293 risale,
infatti, l'atto rogato nel chiostro di S. Michele dell'Ordine camaldolese in
Arezzo da un notar Bonavia, con il quale G. definiva l'entità e la destinazione
di un cospicuo donativo a favore dei camaldolesi. Le 200 libbre pisane che egli
intendeva elargire a partire dal 1° genn. 1294, e che costituivano solo parte
del suo patrimonio, dovevano servire per la fondazione del monastero ed eremo di
S. Maria degli Angeli di Firenze; a loro volta, i camaldolesi si impegnavano a
corrispondere a G. un vitalizio annuo per un ammontare di 8 libbre pisane, pena
l'esborso di 100 libbre per ogni eventuale inadempienza.
L'atto riveste un
particolare significato per la vita di G.: ai camaldolesi, infatti, i gaudenti
avevano sottratto il possesso di un'abbazia, il cui trasferimento venne
confermato da un processo. Con quell'atto, dunque, G. attestava la sua
autonomia dalle posizioni dell'Ordine.
Dopo quella data non
ci è rimasta altra notizia di G., che probabilmente non sopravvisse per più
d'un anno alla donazione. Una lettera (VIII, a frate Alamanno) ci informa sullo
stato di salute precario di G., colpito a più riprese da una
"infermitade" (ed. Margueron, p. 103).
Federici deduce da
un necrologio stilato nel convento camaldolese di S. Cristina (poi Beata
Lucia), nei pressi di Bologna, la data presunta della morte di G., il 21 ag.
1294 (Annales Camaldulenses,
45), sulla cui attendibilità permane qualche dubbio; resta ignoto il luogo del
decesso, tradizionalmente identificato in Firenze.
La sua fortuna nei
secoli è in gran parte debitrice del verdetto dantesco, che lo relegò al di là
del dolce stil novo, alfiere di una poesia municipale, ancorché aperta allo
sperimentalismo di marca provenzale.
Era soprattutto
nella lingua che Dante identificava il maggior ostacolo all'elezione di G. tra
i maestri della generazione precedente: egli, infatti, "numquam se ad
curiale vulgare direxit" (De vulgari
eloquentia, I, xiii, 1), non seguiva cioè la "librata
regula", la misura nel dire, e, quanto a lessico e costrutto, persisteva
nel "plebescere" (ibid.,
II, vi, 8); per il linguaggio plebeo e lo stile smodato, dunque, G. poteva
esser venerato solo dagli ignoranti. Le accuse mosse da Dante nel Purgatorio (XXIV, vv. 55-62) per bocca di
Bonagiunta Orbicciani da Lucca vanno ben oltre la questione stilistica: G.,
insieme con Giacomo da Lentini e lo stesso Bonagiunta, non aveva attinto
ispirazione dal sentimento d'amore, inteso come esperienza assoluta, spirituale
e intellettuale.
Prima
dell'affermarsi dello stil novo, il magistero guittoniano, nondimeno, fece
scuola. Dante stesso, attraverso il
personaggio di Guido Guinizzelli, dovette riconoscere che molti antichi avevano
apprezzato G., "di grido in grido pur lui dando pregio" (Purgatorio, XXVI, v. 125), finché non
vinse il vero affermato da più persone, ossia l'uso poetico moderno: G., in
questo caso, veniva relegato tra gli antichi. Ma anche gli stilnovisti si
nutrirono degli insegnamenti guittoniani, e Dante fu tra questi. A recargli
omaggio tra i nuovi poeti fu proprio Guido Guinizzelli: dedicandogli il sonetto Caro
padre meo, certamente non senza una retorica formularità, esprimeva
l'alta considerazione del sapere e della disciplina morale del maestro, cui si
rivolgeva per riceverne consigli di tecnica poetica. Con il sonetto Da
più a uno face un sollegismo (XLVII)
un altro grande moderno, Guido Cavalcanti, mosse a G. l'accusa di poca
originalità e di eccessi nell'uso retorico. Tra i guittoniani di maggior
rilievo e di professata fedeltà spiccano i nomi di Dante da Maiano, uno dei corrispondenti delle tenzoni dantesche, di
Monte Andrea e di Chiaro Davanzati.
Opere:
Le lettere di frate Guittone d'Arezzo, a cura di F.
Meriano, Bologna 1923;
Le rime di Guittone d'Arezzo, a cura di F. Egidi, Bari 1940;
Lettere, ed. critica a cura
di C. Margueron, Bologna 1990;
Il canzoniere. I
sonetti d'amore del codice Laurenziano, ed. critica a cura di L. Leonardi, Torino
1994.
Fonti
e Bibl.:
D.M. Federici, Istoria
de' cavalieri gaudenti, I, Vinegia 1787, pp. 50 s., 329-331, 373;
Cronaca di Ronzano e
memorie di Loderingo d'Andalò frate gaudente, a cura di G. Gozzadini, Bologna
1851, pp. 46 s., 103-105, 184 s.;
A. Pellizzari, Vita
e opere di G. d'A., Pisa 1906;
A. Schiaffini, La tecnica della "prosa rimata" nel
Medioevo latino, in Guido Faba, G. e Dante, Perugia 1931,
pp. 36-76;
F. Egidi, G.
d'A., i frati gaudenti e i "fedeli d'amore", in Nuova
Riv. storica, XXI (1937), 6, pp. 158-195;
G. Bertoni, Il
Duecento, Milano 1939, ad ind.;
A. Del Monte,Studi
sulla poesia ermetica medievale, Napoli 1953, pp. 113-192; A.
Tartaro, G. e i rimatori siculo-toscani, in Storia
della letteratura italiana(Garzanti), I, Le origini e il Duecento, Milano 1965, pp. 349-428; C.
Margueron,Recherches sur G. d'A.,
Paris 1966; E. Bonora, Andalò, Loderingo degli, in Enc. dantesca, I, Roma 1970, p. C. Segre, La sintassi del periodo nei primi prosatori
italiani (G., Brunetto, Dante), in Id., Lingua,
stile e società. Studi sulla storia della prosa italiana, Milano
1991, pp. 79-151
Enciclopedia Treccani
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